Formidabile raccontatore del mondo politico visto ogni volta da un punto di vista particolare in con quest’ultimo suo libro ci presenta un arazzo intessuto di crudeltà, pietà e humour nero, in cui ogni brandello è una sorpresa, oppure il soprassalto di un ricordo, o l'anacronistica rivelazione di ciò che poi sarebbe inesorabilmente accaduto. Non è più la solita realtà che supera la fantasia, da periodici d’altri tempi. Questa è la realtà che anticipa se stessa. Nella Pompei italiana entro la quale ci è dato vivere, ai piedi di un vulcano che sembra sul punto di eruttare e di inghiottirci (a proposito, dopo il crollo della Casa del gladiatore, che suscita indignazioni benpensanti, puntualmente crolla anche il muro della Casa del moralista, non ce n’è proprio per nessuno) Filippo Ceccarelli scrive un libro che è archeologia del presente, tragicamente spassoso.
CHE SPAVENTO QUEL PAGLIACCIO NELLA NOTTE, brano tratto dal libro di Filippo Ceccarelli, Come un gufo tra le rovine.
“Chi passa la vita al tavolino, trafitto dalla lucetta dello schermo, o anche intento a leggere, scrivere, ritagliare e classificare carte, insomma, è possibile che alla lunga diventi un po’ strano, e magari gli capitino fra i piedi, letteralmente, carte ancora più strane. Così una notte d’inverno, uscendo dal giornale e camminando a occhi bassi lungo il percorso che da largo Fochetti mi porta al garage, per l’esattezza in quell’accenno di giardinetti d’oleandri che rasenta la Circonvallazione Ostiense, con atterrita meraviglia ho notato per terra una carta da gioco, e sopra c’era riprodotto un pagliaccio. Incontro fatale. Avevo appena scritto un articolo sulle possibili relazioni tra la crisi incombente e i maghi, il destino del governo e gli oracoli, la conclusione di un ciclo politico e l’astrologia, e per quanto a quell’ora fossi abbastanza rintronato, e anche discretamente affamato, mi trovavo nella condizione di massima ricettività psico-emotiva dinanzi a quel pagliaccio sgualcito e terrificante. Da qualche tempo, in realtà, con pensieri, parole, letture e altre curiose indagini stavo appresso ai pagliacci. E ai presagi. O meglio. Per quanto continuassi a guardare alle faccende del potere attraverso le tradizionali categorie d’osservazione del giornalismo di Palazzo, ciò che accadeva in Italia aveva sospinto la mia attenzione verso orizzonti piuttosto misteriosi dell’immaginario. Era scattato qualcosa nel cuore del potere. Una molla comica e dissennata, un dispositivo disperatamente umoristico dietro cui si indovinava una premonizione, e nemmeno delle più spensierate. I leader politici, a cominciare dal più importante, mi sembravano impazziti dalla voglia di fare i buffoni. Ridevano, magnavano, cantavano, ballavano, si accompagnavano alle peggiori compagnie, insomma non perdevano un colpo per strappare qualche risata… Avevo anche il sospetto di esserne toccato io per primo: ogni volta che si passava il limite ero colto da una specie di eccitazione ridanciana, ma in essa avvertivo il senso della fine, e anche qualcosa di peggio. Un frullo d’ali perturbante, due grandi occhi gialli, immobili, di fuoco. Il gufo, d’altra parte, gufa. Ma se i clown non avvertono l’arrivo del cataclisma, e anzi lo favoriscono, non è certo colpa di questa bestiola”.
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