Conosco la poesia di Cristanziano
Serricchio da molti anni. Da dauno a dauno, direi che, accanto ai
miei modelli francesi, da François Villon a Yves Bonnefoy, e
italiani, da Francesco Petrarca a Giuseppe Ungaretti – mi piace
attraversare l’intera storia letteraria delle mie due patrie –,
la sua parola sia uno dei miei punti di riferimento. Sono fortemente
innamorato della classicità moderna di questo poeta della nostra
terra, e dei suoi messaggi che sanno di eternità.
Ma da sempre andavo leggendo la poesia
di Serricchio come il nuovo nell’infinito della storia, la parola
che, nel rispetto della poesia di un tempo, si incunea nei meandri
della letteratura del nostro tempo.
E non scorgevo un’evidenza, che
grazie a una ulteriore lettura, in questo periodo di mio rinnovato
interesse per il Mediterraneo e le sue civiltà, mi è d’improvviso
apparsa in tutto il suo fascino e la sua profondità.
Cristanziano Serricchio è un poeta
mediterraneo in tutti i sensi. Rileggendo la maggior parte delle sue
raccolte, da lui cortesemente inviatemi, la mia mente si è aperta, e
ho avuto confermo di una intuizione cui un tempo non avevo dato
seguito.
Ecco, forse è qui la chiave di lettura
della classicità di Serricchio. La sua poesia esce dal tempo, non è
né del XX né del XXI secolo: è di tutti i tempi, come quella dei
grandi poeti mediterranei.
Lo scorrere dei suoi versi mi ha
riportato alla lezione di Fernand Braudel, al senso del tempo da
Omero a oggi, alla rotta delle navi che solcano l’azzurro del
Mediterraneo, alle voci dei porti e delle isole, delle pianure e dei
borghi che incoronano il Mare Nostrum.
Appare così in tutta la sua storica
importanza la grande lezione della parola delle Stele daunie, apparse
nel lontano 1978. Serricchio meriterebbe di essere in tutte le
antologie della poesia mediterranea.
Scrive il poeta turco contemporaneo
Özdemir Ince nell’ultimo verso di un suo poema: “Ritorno a casa:
il Mediterraneo”. La poesia di Serricchio compie lo stesso
tragitto: ci riporta a casa, dopo infiniti viaggi, la casa del
Mediterraneo, cantata da Omero, appulo come Serricchio – all’epoca,
la sua città natale, Venusia, oggi Venosa, faceva parte dell’Apulia
in ogni senso, geograficamente e antropologicamente.
Ha ragione il grande scrittore francese
Raymond Queneau: si potrebbe trovare un’Iliade o un’Odissea
all’origine di tutte le grandi letterature nazionali. Serricchio si
inserisce in questo quadro, tra origine e storia, tempo millenario e
tempo dell’attualità, da maestro della letteratura nazionale.
Leggendo Serricchio, mi sembra di
spaziare tra terra e mare, casa – il focolare – e azzurro del
cielo, civiltà che hanno fatto il giro del perimetro mediterraneo e
senso del luogo – il genius loci –, in una filigrana di parole
che si inanellano come perle.
La casa, con al centro la figura
femminile – si vedano i meravigliosi lamenti poetici di Serricchio
in ricordo della dolce sposa Delia, sui cui tornerò –, diventa un
po’ quello che ci narra Gaston Bachelard : il punto da cui tutto si
dipana, nel sogno e nella vita. Da questo luogo partono la conoscenza
di se stesso, la ricerca del luogo poetico, la traiettoria della vita
e il viaggio nella storia.
Serricchio è un nuovo Ulisse che
viaggia per le terre della Daunia – nella notte dei tempi il
Tavoliere è stato un mare –, alla ricerca del Punto, tra le tracce
sublimi dei morti, nostri fratelli lontani, immortali segni del tempo
nel tempo. C’è nello scavo delle tombe mediterranee della Daunia
la ricerca della storia, ma anche e soprattutto la quête del senso
della parola mediterranea, quel senso di lingua franca, che diventa
parola universale di poesia.
Il che allarga l’orizzonte di
Serricchio all’intero Bacino, e al mondo. Egli non è un poeta
dauno, ma un poeta del mondo, un classico della modernità, che sa
leggere i misteri del cielo, del deserto-Tavoliere, dei cavalli del
mare, degli uccelli della notte, dell’umanesimo delle pietre, che
purtroppo in maniera sconsiderata stiamo distruggendo.
Quante volte Serricchio cita la parola
pietra? Non è la sua pietra – da quella tombale a quella della
roccia del mare, dai ciottoli alle stele, dalle case al focolare –
un traccia indelebile del Tempo? Sì del tempo, di quel tempo contro
il quale lotta tragicamente Charles Baudelaire, e che invece in
Serricchio è il flusso dei giorni, necessario e umano, tragico e
solenne.
Tutto in lui sembra rivivere il tempo
della storia. Un passato complesso si fa oggi. Con pazienza
certosina, Serricchio va alla ricerca dell’esistenza, narrata per
terra e pietra, uomini e persone che ama – la compagna, i figli –,
come se volesse rifiutare il passaggio dei giorni, per inquadrare la
poesia nel suo solenne quadro della vita, nel tempo di ieri e nel
nostro quotidiano andare.
La storia minima della scuola delle
Annales francesi diventa grande storia. Il privato è una scintilla
dell’eternità, “dopo l’alba”. I cocci dell’antichità non
sono segni della morte ma della vita. Le ceramiche di Puglia che
l’aratro distrugge, sono tracce di Ulisse e Diomede, macerie che la
poesia ricostruisce, gemme che ritrovano il loro antico splendore.
Serricchio è il Cavafis della Daunia,
o l’Adonis della Puglia. Una luce penetra i suoi versi
mediterranei, quella di Omero e Ovidio. I reperti della storia sono
parole che vengono da lontano, con la loro aura di affetti, incanti e
voci amorose.
Per questo Serricchio si allinea alle
grandi voci della poesia che dialoga tra Occidente e Oriente. Rivedo
sovente nel suo sogno la creatività onirica della poesia araba di
ieri e del nostro tempo – penso al mio amico poeta libanese Salah
Stétié.
E’ come se scorressimo un vangelo in
poesia, o qualche surata del Corano. Gli “strati di silenzio”
delle stele daunie, per “gesti fermi di millenni”, come “i
morti” indicano “la via del sole”. Gridano vasi e tombe
“nell’eterea luce”: “la brezza tende ancora la vela”.
L’acqua del Mediterraneo e la terra
della Daunia si incontrano “alle sorgenti inquiete della vita”.
“La fredda morsa del mare” non chiude la storia, ma la protegge,
tra danze di donne e voli di gabbiani.
Ecco allora il “potere interminabile
della certezza che torna”, certezza di morti e di vivi, di terra di
transito e di stagioni dell’uomo che da sempre continua a vivere
negli stessi luoghi. “La lunga epopea / di morte è nella quiete /
dei vasti campi /arati dalla luna”.
Il “tremito dolente del mare” ci
dona “il silenzio dei fratelli /erranti per la medesima sete”. E
appare fulgida la “luce degli dei”: “l’oroscopo si scioglie /
nella danza e nel sanguigno canto lunare”. No, le “intemperie”
non hanno vinto. I pellegrini che attraversano mari e terre, e che
incrociano “le bianche ossa disperse”, al fuoco delle stoppie,
hanno lo sguardo “aperto in una fissità remota”, sulla rotta
della storia.
La memoria della poesia di Serricchio
mulina magie di luce, profumi di ginestre, canti e segni che portano
“al più dovizioso porto /nell’invisibile oceano”. Ecco allora
sorgere alla vista ulivi greci e romani, “fuochi saraceni”,
“spade inabissate dell’Islam”, nel “crocevia di memorie”,
nella “rovina tremula degli scogli”.
“L’antico dio mare” ci protegge,
per condurci alla “perla del sole”. “I solari remoti orizzonti”
ci appaiono dipinti di voli di gabbiani, nel mare di Puglia che è
simbolo dell’intero mare Mediterraneo, per “sottili coralli di
memoria”. Non importa se incombe la nebbia. E’ il senso della
storia mediterranea che conta, in questo lembo di Sud, tra cicale,
stoppie e “magri giunchi” divelti dal bracciante pugliese,
simbolo meraviglioso dell’homo mediterraneus, “nel pulsare lento
del tempo”.
Scorre il vento come la storia, nella
poesia di Serricchio. La quiete delle tombe, della piana e del mare
ci conduce su una vela fenicia, “per onde stanche o di burrasca /
al largo dei rimorsi e delle stagioni”, “fra i pini tremuli oltre
il mare”. “I fondali delle lune”:
Reggono con mani di velluto
la vela bianca e nera
verso giardini di palme sospese
e nidi profumati di voli
alti sui colori
improvvisi del mare.
Ho la chiara certezza che Serricchio
inquadri il Mediterraneo – Nord e Sud, sull’una e sull’altra
costa – nello spazio euro-mediterraneo, in una unità esemplare,
che rende il Sud non più maledetto ma benedetto da Dio e dalla
storia, in una “bella favola senza fine”. Qui, nella sua terra
mediterranea, poeta mediterraneo al mille per mille, Serricchio trova
finalmente “la calma luce della gioia”, “la stupenda luna
dell’amore”, il “Tempo senza sponde” e i “profumi nuovi del
cielo”.
La memoria ritorna con tutto il suo
fascino, con la sua energia, che dà “la piena / del cuore in
libertà di canto”. La verità è “nel fondo delle pietre”,
nelle orme del passato, nei “segni scuri del tempo”, nel “vento
/ della gioia” e nella promessa della parola.
Non sono più assenti gli uomini. Le
orme delle antiche dimore parlano e sorridono. Le farfalle narrano di
memorie. Serricchio torna nudo sulle rotte dei mari, dei ruscelli e
delle terre, alla ricerca dei segni. Misurando il flusso dei giorni,
riprende le fila della protostoria, “nel tempo senza sponde” e
nel “silenzio disseminato / fra arcate distrutte”.
Tutta la filosofia mediterranea è
nella poesia di Serricchio, mai invadente, mai lezione invasiva, ma
sempre dolce parola d’amore, luce di segni incancellabili del
“gorgo della vita”, che è un “numinoso altare”.
Leggiamo i grandi poeti del
Mediterraneo: in tutti ritroviamo gli stessi temi della poesia di
Serricchio, nelle ragnatele della memoria, sempre viva, sempre ricca
di lezione struggente. Come i “coriandoli di case e policromia / di
volti e parole” e le “carrucole ferme /nel trasparente suono
dell’aria” dei vapori di Venezia, la voce di Serricchio scende
nel “tempo che va via”, “brezza àsola piano tra gli aranci”,
per donarci “una bellezza vasta come il mondo”.
Le “morte città di sale” del
Mediterraneo non sono morte, ma tra “lacrime e pioggia” ci
indicano la nuova-antica rotta da seguire, per sopravvivere-vivere,
in questi tempi difficili.
Serricchio sa che siamo a un bivio di
non ritorno. Nel poema Uomo mediterraneo mi dici, affronta di petto
le rovine del Mare Nostrum, con le sue violenze, i suoi stupri, i
suoi bimbi piangenti, il suo sangue versato, le sue drammatiche
migrazioni, il suo “tempo sperperato”, mentre purtroppo “giace
assonnata la vecchia Europa / dinanzi al video”.
Solo la “gaiezza di libertà e
poesia” potrà ridonarci il sole, per “non cancellare questi /
fiochi granelli di speranza”. Ancorati alla memoria, ritroveremo la
luce, quella del mare blu di Ulisse.
Recentemente, nella sua prefazione
all’antologia La poesia nel diluvio dell’epoca. Versi di
Cristanziano Serricchio (Foggia, Sentieri Meridiani, 2010), Daniele
Maria Pegorari mette al centro della poesia del nostro poeta
“l’immagine del mare”, nella “fusione di due ‘cicli’
mitici – uno greco, l’altro biblico – incentrati sul mare come
grembo fagocitante e insieme ricompositivo” (p. 5). Questa
interpretazione mi vede totalmente d’accordo, ma io la riconduco
alla mediterraneità della poesia di Serrichio, alla sua visione
sulla linea di una internazionalità appena nascosta, che lo
inserisce in un dialogo ideale di parola incentrato sui miti del
grande Bacino.
Diomede diventa “la giusta mediazione
fra l’oltranza di Ulisse e la pietas di Noè” (p. 13-14), il
simbolo di una storia simbolica di tante storie del Mediterraneo,
dalle origini ai nostri tempi, rinsaldando l’unione circolare
storica della poesia di Serricchio. Tutta una rete di personaggi
mediterranei si affaccia, oltre Ulisse e Noè, “nel gran fiume
delle parole”: Saffo, Narciso, Giacobbe, Adamo, Ettore, Polifemo,
Gesù, i Re Magi, Orfeo, Euridice, nel suono del libeccio che scalda
mare, terra e cuori.
C’è dunque in Serricchio una
religiosità di ordine mediterraneo, una devozione che mai mette da
parte la libertà della parola, in una sensibilità musicale che
molto sa dell’affabulazione dei cantastorie e delle favole
d’infanzia, “per nuove rotte e nuove lingue”, sotto l’egida
di una tematica pregnante della poesia del Mare Nostrum, quella del
“dolore dell’esilio”. In questo contesto affabulatorio si
inserisce l’amore di Serricchio per la parlata della sua città,
Manfredonia, con poemi tra i più belli del Mezzogiorno in dialetto,
in cui egli va alla ricerca della parola d’origine.
Come allora non inserire il ruolo del
personaggio di Delia nel tempo mediterraneo? Non so se Serricchio
abbia studiato a fondo la figura femminile nella storia del
Mediterraneo, ma è certo che Delia appare il simbolo della donna di
un’area in cui essa ha un grande ruolo sociale, religioso e
culturale, al di là degli stereotipi che pure inondano le analisi di
questo tipo.
Esiste un grande je femminile nel
Mediterraneo, sia nel mondo arabo-musulmano, sia in quello cristiano,
il quale ha prodotto una ricca letteratura specifica nel corso del XX
secolo e in questo inizio del XXI. Questo je, che in Serricchio è un
tu, nel dialogo immaginario con la sua donna – poco importa che sia
defunta, ma qui si innesterebbe tutto un discorso sull’al di là di
ordine greco-romano –, si tinge di perennità femminile, di amore
per la donna e la sua storia, di stendhaliana e rimbaldiana proposta
di ridare alla donna il suo giusto ruolo nella società.
Nell’amore per Delia, si incrociano
rotte di leggende, filosofia, teologia e pensiero, in una parola di
culture mediterranee che risalgono alla notte dei tempi. “Io vado
errando nel silenzio”, annota Serricchio in Il tempo per dirti.
Piccolo canzoniere per Delia, nell’ “ebbrezza del mare e del
vento”. Delia è amante, compagna, sorella e soprattutto madre,
quella madre che è il segno di una grande civiltà mediterranea e
del viaggio dalla e alla morte-vita.
Serricchio rivela: “Mi hanno
insegnato fin da bambino / che il sole nasce a oriente e ad occidente
/ tramonta”. E’ un po’ lo spazio mediterraneo della sua poesia.
La “finestra del tempo” ci introduce “nella quiete luce delle
parole” della donna, luce della vita.
Serricchio ha “sognato che la poesia
era morta”, ma solo per riaffermarne la grande lezione e la
responsabilità che le affida il nostro tempo di dolori. Egli
riafferma che “La vita è abisso di luce”, un po’ come Giacomo
Leopardi, Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé e Yves Bonnefoy,
indicandoci così la via de seguire, per ritrovare la luce.
La poesia di Serricchio è il progetto
di un nuovo umanesimo, con al centro l’individuo, tra mare e cielo,
terra e sogno, mare e madre (in francese non per caso mer /mère).
Il Mediterraneo ritorna con la forza
della sua valenza, della sua proposta di arte della vita, come aveva
affermato Albert Camus, nell’apologia dell’amore e del dialogo
con l’altro, parlando di pensée de midi.
Ha ragione Stéphane Mallarmé:
“Soltanto i poeti hanno il diritto di parlare; perché, prima di
tutto, sanno”. E Serricchio è uno che sa, dando al lettore una
“fenomenologia dell’anima” (Gaston Bachelard), con la sua
lettura della parola mediterranea, tra passato lontanissimo e giorni
che viviamo, giorno dopo giorno, con la mente sulla rotta del futuro.