L'EDITORIALE
Gli annunci passano, le province restano. Anzi aumentano
La carica delle 110…e passa
di ANTONIO GRASSO
Contrordine. Le Province non si toccano. Almeno per il momento. Non rientrano nell’elenco dei cosiddetti “Enti inutili”. Cioè da abolire. Nemmeno quelle (dieci in tutto, fra cui Matera ndr) al di sotto della fatidica soglia dei 220 mila abitanti, apparse e scomparse misteriosamente dalla voce tagli della Manovra “lacrime e sangue” appena varata dal Governo del Cavaliere. Lo stesso che non più tardi di due anni fa ne prefigurava un piano complessivo di riordino. Con tanto di “annuncio vobis”. Tanto per cambiare. Anziché dar seguito - coi fatti - alle parole. Come al solito, in libertà. Ma tant’è. Di Province il Bel Paese non può proprio farne a meno. Lo prova la mole a lievitazione istituzionale. Da guinnes dei primati. Verificare per credere. Allo stato, lungo la penisola, di Province se ne contano ben 110 (anche se un paio già istituite non sono ancora entrate in funzione). Vale a dire circa il doppio di quante erano (59) nel 1861. All’indomani, cioè, dell’Unità d’Italia. Altri tempi. Nell’elenco aggiornato non mancano, tuttavia, i “casi limite”. Anzi. Situazioni di antitesi abbondano. Fino all’inverosimile. Province (mai passate a Città metropolitane) con una densità demografica abnorme (tipo Roma e Milano da oltre 3 milioni e mezzo di abitanti) e – al tempo stesso – province con bacini antropici lillipuziani (vedi Ogliastra, in Sardegna, con soli 58.000 abitanti, più o meno quante ne conta la sola “città dei Sassi”). E ancora. Province con appena 7 comuni sul proprio territorio (vedi Prato) ed altre (come Torino) con la bellezza di 315 comuni assegnati. Per non parlare, poi, delle novelle Province a doppio capoluogo (Pesaro – Urbino, Carbonia – Iglesias, ecc.) o, addirittura, triplo (Andria – Barletta - Trani). E, quindi, a costo doppio e/o triplo per le tasche dei contribuenti. Che pagano. Cinquanta milioni di euro, secondo la Corte dei Conti, solo per “battezzare” una nuova Provincia. Circa 100 miliardi di vecchie lire per il “semplice” avvio operativo, dunque. Il resto mangia. Fondi milionari. Per bilanci sempre “in appetito”. Pur se già cresciuti di circa il 66% fra il 2000 e 2004, secondo quanto riportato da un’inchiesta dell’Espresso. Che un recente studio condotto dall’Istituto “Bruno Leoni” conferma. Approvvigionamento garantito dall’inesauribile “pozzo di San Patrizio”. E così ai “parti” non c’è fine. La catena di riproduzione non si arresta. Anziché passare a “miglior vita”, le province già esistenti ne figliano di nuove, ricavate assemblando brandelli di territorio e pre-adesioni di altri comuni. Infatti. Accanto alle 110 Province già istituite cercano ancora spazio altre 24 (compresa Melfi), proposte nel 2006 all’apertura della XV legislatura dagli eletti nei due rami (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica) del Parlamento. Con una perfetta distribuzione bipartisan delle richieste : da sinistra a destra, da nord a sud. Tutti insieme appassionatamente. Viene il dubbio che 110 non bastino a garantire una giusta copertura territoriale (a fronte di 62.000 dipendenti e 4.202 eletti). Ma non è così. Almeno a giudicare dalla distribuzione negli altri Paesi. In Sudafrica, ad esempio, sono solo 9 le Province sparse su di un territorio che è circa il doppio di quello italiano. In molti altri Stati addirittura non esistono. Mentre, dove c’è una certa tradizione istituzionale – comunque – il numero delle Province è nell’ordine di poche decine (vedi la Spagna con 50). Non di più. Dai noi, invece, no. Cento e dieci anni dopo la prima proposta ufficiale di abolizione presentata dal deputato Gesualdo Libertini, le Province (previste dalla Costituzione al titolo V – art. 114) rimangono un livello intermedio di governo irrinunciabile. Un grado di burocrazia che si somma ai tanti già esistenti. In fondo, una Provincia non la si nega a nessuno. Basta chiedere. Le regioni a statuto speciale, a differenza delle altre, non sono neanche tenute a farlo. Possono, addirittura, istituirle motu proprio. Salvo, poi, assistere ad un braccio di ferro fra queste ed il Governo centrale, costretto a rivolgersi alla Corte costituzionale per evitare la deriva. Con una sentenza depositata nel luglio del 2001, la Corte – accogliendo le ragioni della Sardegna – così si pronunciava : “Nella legislazione concernetene le Province, quali circoscrizioni di decentramento statale, non è stabilito alcun nesso necessario fra l’istituzione di una Provincia e la creazione di uffici statali decentrati su scala corrispondente. Rientra pur sempre nella discrezionalità del legislatore statale la determinazione dell’ambito territoriale di competenza dai propri uffici decentrati, tanto più in quanto l’Ente Provincia ha, ormai, perso la sua originaria prevalente matrice di circoscrizione dell’amministrazione decentrata del ministero dell’Interno per assumere la natura essenziale di Ente espressivo di una delle dimensioni del sistema dell’autonomia locale, tracciato dalla Costituzione”. Il trionfo linguistico del paradosso. Eppure mettere una riga sopra l’istituzione provinciale, per la Corte dei Conti, sgraverebbe le casse dello Stato (e le tasche dei cittadini) di circa 17 miliardi di euro all’anno. Quasi una Manovra finanziaria. A conti fatti, conviene. Ma sta riga nessuna la mette. A conferma che : “Governare gli italiani non è impossibile, ma inutile” (Giolitti dixit). Tante, infatti, le buone intenzioni scandite nel tempo dal politico di turno, in ossequio ad un canovaccio fin troppo consumato. A partire dal quel monito spicciolo ma efficace di tal Emilio Caldara, sindaco socialista di Milano, che nel lontano 1920 bollò le Province come “Enti buoni solo per i manicomi e le strade”. Chiusi i manicomi, restano le strade. E i trasporti. Poi, col decentramento amministrativo di fine anni Novanta, si sono aggiunti anche i centri per l’impiego e le scuole. Da sistemare e mettere in sicurezza. E non è poco. Ma nemmeno tanto da giustificare la carica delle 110…e passa. Che solo la nascita delle Regioni - agli albori degli anni Settanta - è riuscita, in qualche modo, a tenere a bada. Fin quasi a minacciarne l’esistenza. Acqua passata. Ora le Province navigano col vento a favore della burocrazia. Finché dura.
La scheda
Ottantatre anni di vita. E di storia amministrativa. Risale, infatti, al periodo fascista la nascita della Provincia di Matera. Correva l’anno 1927. Il Governo opta per l’Istituzione nella “città dei Sassi”. Il provvedimento riporta Matera ad un livello maggiore di dignità amministrativa. Una sorta di “ricompensa” alla privazione del titolo di capoluogo di regione, conquistato da Matera nel lontano 1663, dopo la fuoriuscita dalla provincia pugliese di Terra d’Otranto. E toltogli da Giuseppe Bonaparte nel 1806, per trasferirlo alla città di Potenza. Da allora fra le due comunità non corre buon sangue. Stando ai dati, la provincia di Matera ha una densità demografica di circa 203 mila abitanti. 31 i Comuni di pertinenza. Come personale, invece, si aggira sul migliaio di unità (di cui 300 dipendenti diretti dell’Ente).
Nessun commento:
Posta un commento