I fatti.
Nel 2008, al culmine di un litigio tra fidanzati, lui aveva schiaffeggiato (anche se per una sola volta) la ragazza sul volto, minacciandola con un coltello. Querelato dalla donna, il processo si era concluso in primo grado con la condanna a due mesi di reclusione per violenza privata. La condanna era stata confermata in secondo grado, ma l’uomo aveva presentato ricorso per Cassazione, accolto.
L’art. 610 c.p..
Il delitto di violenza privata si configura quando “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualcosa“. La pena prevista è la reclusione fino a 4 anni, aumentata se concorrono le circostanze aggravanti di cui all’art. 339 C.p., ovvero se la violenza o la minaccia sono commesse con armi, da persone travisate, da più persone riunite, con scritto anonimo , in modo simbolico o valendosi della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete, esistenti o supposte.
Il bene giuridico protetto è la libertà psichica della persona da qualsiasi comportamento violento e intimidatorio in grado di esercitare una coartazione, sia diretta che indiretta, sulla sua libertà di volere o di agire, in modo da costringerla ad una certa azione, omissione o tolleranza.
Nel 2015, con l’intento di deflazionare il grande carico del sistema processuale italiano, è stata introdotta la riforma legislativa che ha portato alla depenalizzazione di un gran numero di reati con pena detentiva non superiore ai 5 anni. Requisiti richiesti a tal fine
sono l’esiguità del danno o del pericolo e la mancanza di abitualita’ nel comportamento di chi commette il reato.
Il caso in esame.
Ritornando al caso in esame, schiaffeggiare la propria fidanzata è un comportamento connotato da un grande disvalore sociale, soprattutto perché rappresenta il sopruso e la prevaricazione di un soggetto forte (l’uomo) nei confronti di uno debole (la donna).
Se poi si pensa che la donna e’ stata minacciata con l’uso di un coltello (che costituisce un’aggravante comportante un aumento di pena), non si condivide l’iter logico argomentativo seguito dalla Corte di Cassazione, che ha posto l’accento sull’occasionalità della condotta.
Un atto di violenza non dovrebbe essere mai e poi mai considerato “occasionale”.
Ciò perché non esiste un profilo specifico dell’uomo violento. La violenza non è una malattia, ma una ” scelta” di cui chi la compie deve assumersene la responsabilità. Tutti quegli uomini che sostengono di non essere violenti, sono coloro che non ammettono di essere considerati dei violenti o dei maltrattanti. Si ritengono innocenti rispetto alle accuse che gli vengono mosse, evidenziando come gli episodi siano stati occasionali, non intenzionali e quanto siano stati fraintesi. Sono bravi a presentare la loro partner come una donna problematica, lasciando intendere addirittura che è a lei che bisogna imputare il motivo di alcune reazioni aggressive. La definizione di violenza che danno, come la descrizione degli episodi violenti, è strumentale alla anormale normalizzazione del loro comportamento. Questi uomini non riescono mai a mettersi in discussione, perché vivono nella convinzione che se esiste un problema nella coppia non sono loro a doversene fare carico. Se poi anche la Giustizia contribuisce a supportare le loro anormali normalità,in che modo possiamo combattere la violenza di genere?
Di sicuro non con sentenze che “giustificano” la occasionalità della condotta!
Intervento del Presidente Ivana Giudice
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