S. APOLLONIA. 9 Febbraio 2010 PISTICCI RICORDA IL MARTIROLOGIO DEL 9 FEBBRAIO 1688
Con il mesto rintocco a stormo di ieri sera delle campane di tutte le chiese del territorio, Pisticci si è fermata per ricordare le vittime della tragico evento del 9 febbraio 1688, passato alla storia come “Notte di S. Apollonia”. Le celebrazioni, promosse dal comune , assessorato alla cultura e biblioteche comunali di Pisticci, riprendono nella mattinata di oggi con la S. Messa concelebrata dal clero tutto nell’Abbazia-Santuario del Casale e la deposizione, all’interno del cimitero, di una corona sul Cippo marmoreo che ricorda le trecento vittime della frana, e, nel pomeriggio, -Chiesa Matrice, ore 18,30- un incontro culturale con interventi di Michele Sisto (Ass. alla Cultura), arch. Renato D’Onofrio, proff. Dino D’Angella e Giuseppe Coniglio e del sindaco Michele Leone. A seguire il concerto lirico ad requiem, a cura dell’Accademia Pianistica Lucana “F. Busoni”, soprano Maria Antonietta Valente, pianista Alessandro Vena. In quella triste notte, la parte più antica del paese si divise in due, a causa di una frana. “Accadde a nove del febbraio 1688 -riferisce una cronaca del tempo- ed il popolo posava nella quiete della notte, preceduta da una neve inaudita e spirava un orribile aquilone. Si vide verso le sette della notte smuoversi e crollarsi dalli fondamenti le case tutte”. Nella contrada Terravecchia, il suolo si abbassò per oltre sessanta metri e molte persone furono ingoiate dalle voragini e sepolte dalle macerie. Fra le vittime, due sacerdoti, amministratori feudali, bambini e numerosi contadini e bracciali. Nelle operazioni di soccorso un ruolo di primo piano fu svolto dai frati del convento francescano e del Casale che ospitarono nelle loro celle molte persone, vestendole del loro umile saio. Nella solerte gara di solidarietà, si distinse, tra gli altri, il vescovo di Anglona mons. Marco Matteo Ajeta Cosentino, che inviò una lunga teoria di muli con viveri, indumenti e medicinali. Altri aiuti pervennero dopo qualche settimane da Acerra dove risiedeva il feudatario di Pisticci don Carlo De Cardenas, qualche tempo dopo accusato ingiustamente di voler trarre profitto dalla sciagura, facendo costruire nuove case in località Caporotondo dove doveva sorgere la nuova città. Ma i pisticcesi, riuniti in Pubblico Parlamento, decisero di non abbandonare i luoghi nativi e si strinsero intorno alla loro Chiesa Matrice, che, miracolosamente intatta dalla frana, si ergeva ancora maestosa, quasi a voler testimoniare la continuità della storia e della vita. Tutti i resti della vittime furono provvisoriamente depositati negli ampi ipogei della Chiesa Madre e solo dopo qualche anno, sgombrate tutte le macerie, venne avviata una lenta opera di ricostruzione. E, come per incanto, spuntarono circa trecento bianche casette a schiera, che oggi formano il rione Dirupo, una tra le “100 Meraviglie d’Italia” dei Beni Culturali da salvaguardare. Dopo oltre trecento anni, le spoglie mortali delle vittime, che giacevano nei meandri della Chiesa Madre, hanno finalmente trovato degna sepoltura in un’area consacrata. (G. C.)
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