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lunedì 4 novembre 2013

Una Norimberga per l’affarismo di Stato

È sconcertante che si sia tolto solo ora il segreto alla deposizione del pentito della Camorra, Carmine Schiavone, fatta nel 1997 in merito al traffico dei rifiuti dal nord al sud dell’Italia e del loro smaltimento illegale e criminale nei terreni coltivati delle regioni meridionali. È sconcertante non solo perché in questa maniera, tenendo all’oscuro la gente, si sono tutelati imprenditori senza scrupoli e criminali senza patria e senza amore, ma soprattutto perché si è impedito alla gente di prendere precauzioni personali sulla provenienza dei cibi, in una nazione dove il consumatore già non ha tutele di alcun genere sulla tracciabilità di ciò che mangia e, come ci dimostra lo scandalo della Galbani di un paio di anni fa, non ha tutele neanche verso le truffe alimentari delle aziende cosiddette di marca. Col sospetto che questi 15 anni di silenzio parlamentare e giornalistico sulla deposizione di Schiavone siano serviti soprattutto a tutelare quegli amministratori pubblici che sapevano e che non hanno deliberato né maggiori controlli né attuato bonifiche immediate dei terreni inquinati né legiferato norme a garanzia dei cittadini e dei loro affetti (il Sistri, il sistema di tracciabilità dei rifiuti, è ancora palleggiato tra i componenti del partito unico ed è di fatto operativo solo sulla carta). Anzi, in questi 15 anni, in cambio di prebende clientelari e di scambi elettorali, sono stati garantiti la reiterazione dei reati e l’affarismo delle eco-mafie, anche smentendo, disinformando ed etichettando chiunque chiedesse spiegazioni. Ci vorrebbe una «Norimberga» per i crimini sociali contro il territorio che questa classe dirigente politica italiana ha commesso con la complicità e la connivenza della classe manageriale, che la stessa politica ha costruito a sua immagine e dipendenza, lasciando intere aree del Paese in balia di indici di mortalità infantile e adulta da Terzo Mondo, di diossina nel latte materno, di indici di cangerogenicità in incremento pauroso, ad uso e consumo degli interessi da salvaguardare di una cricca di imprenditori, di gruppuscoli di malavitosi e di amministratori complici e corrotti. Come accade in Campania, come avviene in Puglia, come è stato per la Basilicata. Regione, quest’ultima, dove, dal 1999, la classe politica non poteva non sapere che l’Eni, in cerca di petrolio e di compiacenze burocratiche, perforava il sottosuolo lucano ricco di acqua sperimentando, come da denuncia della ricercatrice Maria Rita D’Orsogna, tecniche di perforazione orizzontale, con acido cloridrico, acido fluoridrico e «misteriose pillole viscose». Sostanze alle quali, nel tempo se ne sono aggiunte altre chimiche e tossiche, come probabilmente il berillio, alcuni isotopi radioattivi e molti metalli pesanti. Inquinanti anche cancerogeni che, tra le smentite di parte e la disinformazione di regime, negli anni successivi al 1999, sono iniziati a comparire nei potabilizzatori che riempiono i bicchieri di acqua delle tavole di qualche milione di persone, tra la Puglia e la Basilicata. Anziché, dunque, leggi di tutela, sono state costruite tutele dell’illegalità ai danni del territorio e della catena alimentare umana, per quegli intrecci tra partiti, politici e interessi industriali che va sotto il nome di «affarismo di Stato». Un crimine che merita una sua Norimberga, perché non può essere da meno di un crimine razziale: in entrambi i casi si ha spregio della vita umana.

Vito Petrocelli
portavoce Movimento 5 Stelle

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