Le arance italiane vengono pagate agli agricoltori da 17 centesimi al kg a un max di 25/30. Qualcosina in più si ottiene per i mandarini, intorno ai 30/40 centesimi. Al produttore, occorrono però 11 centesimi al kg per raccogliere le arance dall’albero (circa 15/20 per i clementini) e quella miseria che resta non solo non fa reddito, per una famiglia che vive di agricoltura, ma non copre nemmeno le spese di lavorazione e concimazione dei campi. Per un prodotto che sulla tavola degli italiani arriva con prezzi che vanno da 1,50 finanche a circa 3 euro al chilo. Una notevole discrepanza che sa di beffa, di monopoli di mercato e di politiche agrarie deformate, essendo mirate agli interessi del cartello della grande distribuzione e non certo a chi lavora la terra e produce localmente. È a rischio un’intera economia che coinvolge principalmente quattro regioni italiane, tutte meridionali, Sicilia, Calabria, Basilicata e Puglia, ma è a rischio anche una secolare cultura di questa coltivazione che nella piana di Catania, in quella di Sibari in Calabria, in quella del Metapontino in Basilicata e in quella dell’arco jonico pugliese, ha trovato un suo naturale microclima e una vocazione che ha creato esperienza tecnica e anche volumi significativi di produzione di agrumi. L’Italia produce circa 2 milioni e mezzo di quintali all’anno, poco sotto la Spagna e tre volte di più del Marocco che è stato di recente beneficiato da un accordo con l’Europa, voluto dalle multinazionali dell’agroalimentare, dai grandi della distribuzione e dai soliti noti della grande impresa italiana, che da alcuni anni fa incetta di migliaia di ettari di terreno in quel d’Africa o in Sudamerica.
La Sicilia (52% della produzione nazionale) recupera qualcosa con le arance da spremuta, perché è leader mondiale del Tarocco, ma chi come la Calabria (il 31,7%della produzione nazionale) o la Basilicata (terzo produttore nazionale con 90 mila tonnellate, più 25 mila di sole clementine) producono varietà, ad esempio come i Navel, in concorrenza con i dieci Paesi da cui importiamo agrumi, come Egitto, Brasile, Sud Africa, Spagna e, appunto, Marocco, rischiano una crisi senza precedenti e la costrizione a cambiare coltura se non addirittura ad abbandonare l’agricoltura.
La situazione è gravissima e occorre che il governo, che è intento purtroppo a stravolgere incostituzionalmente la democrazia in Italia per alimentare il regime di sistema nel quale viviamo, riveda con urgenza le sue politiche agrarie. Anche alle Regioni dovrebbe toccare un ruolo di primo piano, se la smettessero di usare i finanziamenti europei, come i Psr, Piani di sviluppo rurale, a scopi clientelari: non per creare un mercato (non si disturbano gli amici della grande distribuzione), ma per compensare gli agricoltori, a spese del contribuente, di ciò che, con la scusa della globalizzazione, gli viene tolto da vari cartelli di interesse molto nazionali. Insomma, non si vendono le arance, però ti arriva un bel trattore nuovo, quasi regalato.
Il senatore del Movimento 5 Stelle Vito Petrocelli, nell'interrogazione al ministro per le politiche agricole, a prima firma di Francesco Molinari, ha chiesto un'urgente verifica e valutazione dell’impatto economico in agricoltura, di riconoscere le difficoltà generate dagli accordi bilaterali sull'impresa agricola meridionale, di rivedere il sistema del prezzo di entrata dell’import, al fine di mitigarne gli effetti negativi, di capire se il nostro sistema di controllo doganale sia dotato di mezzi e personale adeguato per evitare elusioni delle disposizioni di legge previste in Italia e in Europa, di valutare se l'aggressività dei prodotti marocchini o di altri Paesi nel mercato interno dell'Unione Europea, possa essere frutto dell'inosservanza di queste regole, in materia di ambiente e sicurezza alimentare. Regole al cui rispetto sono chiamate le imprese italiane che non hanno possedimenti oltre i confini patri.
Vito Petrocelli – portavoce M5S Senato della Repubblica, Commissione industria
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