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martedì 28 agosto 2012

MAURIZIO BOLOGNETTI: Resoconto visita al carcere di Taranto. Con Rita Bernardini in visita alla Casa Circondariale di Taranto.

Di Maurizio Bolognetti

Lunedì 20 agosto è un'altra giornata da bollino rosso per la morsa di caldo che attanaglia la penisola. Inevitabile pensare al fatto che con Rita Bernardini stiamo per recarci in visita alla Casa circondariale di Taranto. Una breve ricerca in rete e lo spaccato che ne emerge è quello di una struttura sull’orlo del collasso dove vivono ammassati circa 600 detenuti. La Casa circondariale di Taranto è una delle famigerate e tristemente note “Carceri d’Oro”. Il motore di ricerca vomita titoli preoccupanti. Il 26 giugno sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno si riferisce di un “black out elettrico” che ha determinato proteste e tensioni. Leggiamo l’articolo e il quadro appare apocalittico: il giornalista scrive di difficoltà nell’erogazione di acqua che perdurano da tempo e del fatto che il black out ha portato il carcere sull’orlo della rivolta. Sul sito meteoweb.eu, in data 19 giugno, si riferisce di risse tra detenuti esplose nei cortili a causa del gran caldo e della mancanza d’acqua. Nello stesso articolo vengono riportate le dichiarazioni del vicesegretario nazionale dell’Osapp, Domenico Mastrulli, che afferma: “In questi giorni di gran caldo e a causa della mancanza di acqua, per i servizi igienici viene utilizzata acqua minerale, acquistata nel bar dell’istituto di pena da poliziotti penitenziari e detenuti”. Un anno prima, il 20 agosto 2011, sul sito www.20centesimi.it leggiamo di un carcere pronto a scoppiare e di una condizione “che non offre scampo, sia a chi ha commesso un reato e lì dovrebbe rieducarsi, sia a chi ha scelto il carcere come lavoro e missione”. Insomma, a giudicare da quanto riferiscono le cronache, da un anno all’altro la situazione del carcere “Carmelo Magli” di Taranto permane una situazione critica dove la detenzione assurge indubitabilmente a tortura.

Arriviamo a Taranto intorno alle 11.45. Il tempo di scambiare qualche parola con la stampa presente e alle 12.30 entriamo nella struttura. A piedi percorriamo il tragitto che porta all’ingresso dell’Istituto e che poche ore prima avevano percorso i familiari di alcuni detenuti. Il sole batte a picco e non c’è possibilità di riparo, quasi che la strada fatta di asfalto rovente e vista su mura rapidamente deterioratesi debba preparaci a quello che di lì a poco troveremo all’interno.

Ad accoglierci all’ingresso il comandante e un agente che tiene a raccontarci di aver trattato nel suo esame scritto la questione delle visite ispettive, citando come esempio proprio l’operato dei Radicali. La direttrice del carcere, la dottoressa Stefania Baldassari, ci raggiunge subito dopo e sottolinea immediatamente: “Noi siamo destinatari del piano carceri”.

Rita inizia a raccogliere dati e a fare domande. Ci dicono che la struttura è nata nel 1986 e che la capienza regolamentare è di 237 detenuti(in realtà sul sito del Commissario delegato per il piano carceri si parla di 200 posti). Attualmente l’istituto ne ospita 594, ma – sottolineano - si è arrivati ad ospitare anche 700 persone. La pianta organica, come al solito, risulta sottodimensionata: 317 agenti anziché 357. Tra quelli in servizio 53 fanno parte del cosiddetto nucleo traduzioni. I detenuti usciti grazie al decreto Alfano sono circa 200, una sorta di record. Mentre Rita parla con la direttrice uno degli agenti ci racconta che qualche tempo fa è crollato un cornicione e che solo per un caso non ci sono state vittime.

La dott.ssa Baldassari sottolinea il buon funzionamento della magistratura di sorveglianza, dicendo “è il nostro fiore all’occhiello”. A ferragosto sono stati concessi 80 permessi e la direttrice ci dice che in passato, fatta eccezione per un paio di casi, i detenuti sono sempre rientrati. Insomma, c’è un giudice a Taranto, il Gip Todisco che ha deciso di tutelare la salute di una popolazione da tempo bombardata da un cocktail di veleni, ma c’è anche un magistrato e una magistratura di sorveglianza guidata dal dott. Massimo Brandimarte che svolge un lavoro che asseconda quanto previsto dalla legge di riforma penitenziaria n.354 del 26 luglio 1975. La magistratura di sorveglianza come leggiamo sul sito della Corte d’Appello di Milano “ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti e degli internati, interviene in materia di applicazione di misure alternative alla detenzione, di esecuzione di sanzioni sostitutive, di applicazione ed esecuzione di misure di sicurezza”.

L’azione di vigilanza e la dovuta attenzione nei confronti della popolazione detenuta a Taranto viene onorata e con essa la legge, diversamente da quanto avviene nella quasi totalità dei casi. Il comandante fa eco alle parole della direttrice dicendo che quei magistrati sono disponibili 24 ore su 24 e che è grazie alla loro attenzione che è stato possibile garantire a un detenuto di morire nel suo letto e non nelle quattro mura del carcere.

L’area educativa, manco a dirlo, viene definita in sofferenza a causa del sovraffollamento. Carenze si registrano anche sul fronte dell’assistenza psicologica. Quando si arriva al parco automezzi un autentico pianto anche a causa del blocco manutenzioni.

A un certo punto il comandante sbotta e ci illustra un provvedimento di “spending review”. La proposta sembra di quelle che nascono dal buon senso di chi da anni osserva sul campo il funzionamento, a volte cervellotico, della macchina amministrativa. Il comandante dice che non ha senso prevedere che i detenuti vengano accompagnati ai domiciliari da una scorta, a volte con viaggi anche di centinaia di chilometri. A ben pensarci ha ragione da vendere: se il detenuto decidesse di evadere, potrebbe farlo una volta arrivato a destinazione. E allora, perché impegnare uomini e mezzi solo per scortarlo al domicilio se “non esiste un’esigenza di sicurezza”? Bella domanda che toccherà girare a chi in questi mesi cerca di far quadrare i disastrati conti pubblici. La direttrice ascolta e poi aggiunge che spesso le scorte sono sottodimensionate e che lei non ha nemmeno la possibilità di rimborsare un buono pasto.

Si passa a parlare delle ore trascorse in cella e il dato è sconfortante: 20 ore per chi non fa attività(corsi/scuola).

Ci riferiscono che nell’istituto sono attive due associazioni di volontariato, una di queste “Noi e Voi” è gestita dal cappellano del carcere, che ha messo a disposizione una casa famiglia per consentire anche ai detenuti – spesso stranieri – che non hanno un domicilio di poter usufruire dei benefici.

Ma se parlando dell’associazionismo emerge il volto positivo di questo Paese, quando arriviamo al rapporto con le istituzioni è un disastro e ci sottolineano l’assoluta mancanza di collaborazione da parte di Provincia e Comune.

I detenuti che riescono a lavorare sono 85, più 4 art. 21. Il guadagno medio è di 600/700 euro. La direttrice riferisce che il budget per la manutenzione ordinaria è “assolutamente insufficiente”. Ci guardiamo intorno e non abbiamo difficoltà a crederle.

La chiacchierata termina e inizia la visita alla struttura. Prima tappa il terzo piano della caserma agenti chiuso per inagibilità. Se non ci trovassimo a Taranto nel 2012 si potrebbe avere l’impressione di essere capitati in zona di guerra.

Scendiamo da questo angolo di Beirut, rappresentativo della realtà tarantina e più in generale delle nostre patrie galere, e ci dirigiamo presso la “pescheria”, che altro non è se non una squallida sala colloqui con il solito muretto divisorio. Intanto, ci riferiscono che il 40% dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza e che sono una trentina quelli in terapia metadonica. A quanto pare sul fronte delle tossicodipendenze il carcere di Taranto è stato oggetto di una interessante ricerca condotta da una sociologa.

Sono circa le 14.00 e arrivati in prossimità della Sezione A il comandante racconta di un detenuto rumeno suicidatosi con l’elastico degli slip. La brutta storia è stata oggetto di una interrogazione a risposta in Commissione presentata proprio da Rita Bernardini il 16 luglio(atto n. 5/07433). Conoscendo la caparbietà di Rita è certo che la risposta ministeriale non tarderà ad arrivare.

Iniziamo a percorrere il corridoio della sezione A, ubicata al primo piano, e la prima cosa che notiamo è che le celle, che arrivano ad ospitare anche 4 detenuti, non superano i 9,6 metri quadrati!!!

Nella cella 23, C.L. ama leggere e ci mostra con orgoglio le sue letture, poi propone una “commissione” che consenta un confronto tra agenti e detenuti sulle cose che all’interno della struttura non funzionano. C.L. è simpatico e la sua idea di carcere deve scontrarsi con il disinteresse di chi il carcere ha voluto eleggerlo a discarica sociale e a luogo dove viene negata la Costituzione e le convenzioni internazionali sui diritti umani.

Cella 22: incontriamo un detenuto con problemi psichiatrici. Balbetta e ci racconta che era ospite della comunità terapeutica “Il Delfino”. Tra un mese dovrebbe tornare in comunità ed è stato rimandato in carcere per scontare un residuo di pena di 20 giorni!!

Inevitabilmente, parlando con i detenuti viene fuori la questione della carenza d’acqua e ci raccontano che nonostante il caldo la doccia è consentita a giorni alterni. La direttrice fa presente che l’amministrazione penitenziaria ha un debito con acquedotto pugliese, quello che a detta di Salvemini avrebbe dato più da mangiare che da bere.

Intanto girando per la struttura osserviamo le zone transennate e chiuse perché pericolanti.

La visita prosegue e ci dirigiamo presso quello che un tempo era un campo sportivo. Oggi il campo, decisamente messo male, è stato destinato a zona passeggio. Entriamo e immediatamente i detenuti presenti iniziano a chiedere dell’amnistia. Come a Potenza si discute, e osservare Rita mentre spiega e risponde alle domande per un attimo mi fa dimenticare dove mi trovo. Con la direttrice parliamo della lettera del Si.Di.Pe e passati nell’altra ala del fu campo sportivo, come al solito e per fortuna, c’è chi ha voglia di scherzare. Un detenuto, nell’indicarci le condizioni del campo, ci dice che quando piove si trasforma in palude e che mancano solo i coccodrilli.

La visita volge al termine e ci dirigiamo presso la sezione femminile, assurta agli onori della cronaca perché ospita le protagoniste del “Caso Scazzi”. Una volta di più viene da pensare alle migliaia di ore dedicate dai media a un caso di cronaca nera e all’assenza di dibattito e informazione sulla questione giustizia-carceri e alle morti di detenuti e agenti che non fanno notizia.

La direttrice mentre ci dirigiamo presso la sezione femminile sussurra: “è il carcere che vorrei”.

Entriamo e una giovane detenuta scoppia in lacrime, un pianto inarrestabile. Emerge che la ragazza da quasi due mesi non vede il suo cosiddetto difensore d’ufficio.

La visita è finita e a me viene da pensare che capisco l’entusiasmo della dott.ssa Baldassari per la sezione femminile, ma penso che quell’entusiasmo nasca dallo sconforto di chi ogni giorno deve confrontarsi con i problemi di una struttura totalmente illegale.

Usciamo. Fuori fa ancora caldo, ma nonostante il clima inizio a respirare.

Penso a Taranto alle sua storia millenaria, ai veleni e alle bugie, al Carcere d’oro che ormai ho alle spalle, alle raffinerei Eni, all’Ilva e alla Cementir, alle carni alla diossina e alle cozze con il PCB e ripeto una volta di più quello che afferma Marco Pannella: “La strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di popoli”.

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